Grano saraceno e granoturco, due ingredienti alla base dei principali piatti tipici valtellinesi: pizzoccheri, sciatt e polenta taragna, per dirne alcuni. Ma da dove vengono e quando furono introdotti in Valtellina?

Grano saraceno

In italiano si chiama grano saraceno, i botanici preferiscono chiamarlo Poligonum fagopyrum o Fagopyrum esculentum, in dialetto locale semplicemente “Furmentun”, forse a voler intendere “un grande frumento”? Il nome grano saraceno è ingannevole perché in realtà non è un grano, botanicamente è una poligonacea.

È una pianta erbacea annuale a ciclo vegetativo breve. L’altezza varia da 60 a 120 cm. Si sviluppa molto rapidamente, dalla semina al raccolto passano soltanto circa tre mesi, e non necessita di irrigazioni o di terreni eccessivamente fertili, sviluppandosi quasi come una pianta infestante, anche in condizioni critiche, dove i cereali più diffusi non potrebbero venire coltivati.

Per questa pianta per molto tempo si è ipotizzata un’origine legata alle zone della Siberia Meridionale e della Manciuria. Più recentemente, alcuni ricercatori hanno contraddetto in parte tale ipotesi, evidenziando il ruolo dello Hymalaya orientale come probabile centro di addomesticazione primario. La coltura si propagò poi alla Cina nel secolo X e, intorno all’anno Mille, nel tardo Medioevo, iniziò la sua introduzione in Occidente, dove era sconosciuta. Circa l’introduzione della pianta in Europa si sono avanzate varie ipotesi.

La principale via di diffusione della nuova coltura andrebbe individuata nei traffici che i mercanti veneziani intrattenevano con i popoli dei Balcani e del Peloponneso, confinanti con la Turchia; i Turchi avrebbero infatti introdotto la pianta in Grecia e nella penisola balcanica, da dove sarebbe giunta, tramite i mercanti veneziani, fino all’Italia del nord. Da questa ipotesi deriverebbe il nome di “Grano saraceno”, cioè grano dei turchi o saraceni. Termine sicuramente eloquente per definire le origini di questa pianta, dai chicchi scuri, proprio come i saraceni. Più probabilmente però “saraceno” sta per forestiero, cioè venuto da fuori, da lontano, estraneo alle colture autoctone.

La seconda ipotesi sostiene che la sua diffusione in Europa, a partire dal XV secolo, sia avvenuta attraverso l’Asia e l’Europa del Nord ad opera delle migrazioni dei popoli mongoli che dalla Russia meridionale portarono il grano fino alla Polonia, da dove si sarebbe diffuso in Germania, in Francia e sulle Alpi, successivamente nel resto del continente europeo.

Una terza ipotesi asserisce che nel tardo Medioevo la pianta raggiunse l’Europa arrivando sulle coste del Mar Nero e poi nel Meclemburgo e nell’Eifel (Germania) dove è documentata nel XV secolo con il nome di Heenisch, cioè l’odierno Heidenkorn, vale a dire “grano dei pagani”. Successivamente giunse in Svizzera dove è conosciuta con il nome di Heyden o Heidenkorn.

Nei secoli immediatamente precedenti, tra i cereali, il più diffuso era la segale (ancora oggi il pane di segale è un prodotto tipico in Valtellina) accanto ad altre produzioni quali orzo, miglio e panico. Il grano saraceno, così importante nella cucina tipica, si affermò probabilmente soltanto in fase successiva, e comunque non prima della seconda metà del Seicento, quando, insieme con le nuove colture della patata e del mais, diede un fondamentale contributo, affinché le popolazioni locali potessero affrontare i gravi periodi di carestia.

La prima fonte storica, che attesta la diffusione del grano saraceno in Valtellina, è rappresentata da una relazione stilata nel 1616 da Giovanni Guler Von Weinech, governatore grigionese della Valle dell’Adda, sui principali prodotti della cosiddetta valle nel Terziere di Mezzo (zona compresa tra Sondrio e Tirano):

“…questa regione produce altresì granaglie e legumi d’ogni sorta: frumento, segale, orzo, avena, piselli, fave, lenticchie, miglio, finocchio e il grano saraceno …”.

La sua introduzione si fa risalire quindi a quel periodo: in particolare, Teglio costituì il territorio di elezione di questa coltura. La diffusione delle colture di grano saraceno e mais ebbe inevitabili conseguenze sulle abitudini alimentari della popolazione valtellinese e, in particolare, della massa dei contadini.

Emerge dai documenti del tempo un sistema agricolo caratterizzato dall’economia di sussistenza. Esso era incentrato sulla coltivazione dei cereali e del grano saraceno, la cui semina avveniva secondo i tradizionali metodi di rotazione agraria. E tuttavia, pure se essenziali per la sussistenza, tutte queste colture dovettero a lungo resistere alla crescente diffusione della viticoltura, considerata più redditizia, determinando un grave squilibrio nella produzione agricola della Valtellina. Il grano saraceno veniva coltivato soprattutto sul versante retico delle Alpi, esposto più a lungo al sole e con un clima più favorevole che ne permetteva la maturazione anche alle quote alte.

Non si hanno dati certi sui quantitativi di produzione del grano saraceno, poiché la granaglia ricavata era destinata prevalentemente alla produzione di farina per l’autoconsumo e quindi non esisteva un vero e proprio mercato.

La produzione del grano saraceno come per tutti gli altri cereali si sviluppò fino al 1800, anche perché le necessità alimentari costrinsero i valtellinesi a colonizzare le zone disagiate e improduttive e a seminare il grano anche fra i filari del vigneto, come risulta dal censimento fatto nel 1800. La massima espansione si raggiunse nella prima metà dell’800 (intorno al 1830 la sua produzione, con più di 17 mila quintali, fu di poco inferiore a quella del granoturco, mentre in testa non aveva rivali la segale, con 30 mila quintali).

Il 19 giugno 1797 la Valtellina si proclamò indipendente dai Grigioni e nello stesso anno fu da Napoleone aggregata alla Cisalpina. Successivamente, nel 1815, alla cacciata dei francesi dal nord Italia, la Valtellina fu annessa al regno Lombardo Veneto.

In quegli anni le cose cambiarono: la Valtellina uscì dalla sfera di influenza grigionese durata quasi tre secoli e si aprì al mercato dell’Italia settentrionale. L’aumento del prezzo del vino e la possibilità di rifornirsi di granaglie a prezzi più bassi grazie ai nuovi contatti con la Pianura Padana, determinò una nuova spinta vigorosa a favore della coltivazione della vite, con la conseguente e ulteriore compressione dei terreni destinati alla coltivazione di cereali.

Questo indusse i coltivatori ad abbandonare i campi di grano saraceno per dedicarsi ai vigneti e alla produzione di uva da cui si ricavava il vino che era molto richiesto fuori provincia. La coltivazione faticosa sui pendii o sui terrazzamenti, la raccolta troppo laboriosa, quindi costosa e il cambiamento dalle abitudini alimentari nelle regioni alpine contribuirono alla progressiva decadenza della coltivazione di grano saraceno.

Il graduale abbandono della coltura, a parte una pausa durante il decennio 1850-1860 dovuta a malattie come la crittogama della vite, proseguì inesorabilmente fino a dimezzarsi nel primo decennio del Novecento e praticamente azzerarsi alla fine degli anni Settanta.

Dopo questo periodo di abbandono seguì un lento e graduale ritorno alla coltivazione anche grazie alla tenacia dei pochi coltivatori rimasti, a programmi di sostegno dell’agricoltura di montagna e ad una vera e propria rivalutazione, con conseguente richiesta di mercato, data a questo alimento: da grano dei poveri a preziosa fonte alimentare.

Il grano saraceno è ideale per la coltivazione in regime biologico e produce una farina priva di glutine, che quindi è molto preziosa per la dieta dei celiaci. Nella farina sono presenti anche molte altre sostanze nobili e bioattive, che la rendono ideale per la preparazione di alimenti funzionali sempre più richiesti dai consumatori alla ricerca di prodotti salutistici.

Quindi ancora oggi nelle zone di Teglio e dintorni in estate si possono ammirare i bellissimi campi in fiore di grano saraceno… fiori bianchi e grano nero.

Il mais o granoturco

Il suo nome è di origine spagnola, maíz, la pianta proviene dal centro Messico dove rappresentava l’ingrediente base della cucina messicana preispanica. Il termine “granoturco” o “granturco” deriva da grano turco, ossia esotico, coloniale, straniero.

Il mais fu portato per la prima volta in Europa da Cristoforo Colombo nel 1493, e nei primi decenni del Cinquecento si diffuse dalla penisola iberica alla Francia meridionale, all’Italia settentrionale e ai Balcani. Inizialmente non sostituì altri cereali, ma fu coltivato soprattutto negli orti o come foraggio. A lungo il suo ruolo nell’agricoltura e nell’alimentazione restò secondario.

I contadini coltivavano il mais negli orti, perché questi di solito erano esenti da canoni e decime e il loro prodotto poteva essere direttamente utilizzato dalla famiglia del coltivatore. Ma in seguito i proprietari terrieri si resero conto delle potenzialità produttive della nuova pianta, che poteva avere rendimenti maggiori rispetto ai cereali tradizionali, e spinsero i contadini a estenderne la coltivazione. Il mais poteva diventare un alimento abbondante ed economico per i contadini e gli strati sociali inferiori, mentre il frumento e altre coltivazioni più pregiate potevano essere destinate alla vendita.

A ciò si aggiunsero l’aumento della popolazione e le carestie che colpirono molte regioni d’Europa nel XVIII secolo, che resero necessaria l’adozione di coltivazioni più produttive. Di conseguenza, a partire dalla metà del Settecento la coltura del mais si diffuse nei campi dei Balcani, della Valle Padana, della Francia meridionale, sostituendosi in larga parte al miglio e all’orzo, cereali considerati minori e tradizionalmente riservati alla parte più povera della popolazione. Non mancarono resistenze da parte dei contadini, che temevano, non senza ragione, un peggioramento delle loro condizioni di vita e del loro regime alimentare, che infatti si verificò.

Nelle regioni in cui il mais era diventato la coltura principale, esso divenne anche l’alimento centrale e quasi esclusivo per le popolazioni delle campagne, in genere sotto forma di polenta. Ma le diete a base di solo mais non furono certo salutari, sono carenti di niacina assimilabile e provocarono la pellagra. La comparsa e la diffusione di questa malattia seguì l’affermazione di questa coltura e persistette fino a tutto l’Ottocento o anche all’inizio del Novecento, a seconda delle zone, segno e simbolo di una povertà alimentare senza precedenti.

Non furono soggette alla malattia le popolazioni che, per abitudine e per disponibilità dell’alimento, consumavano la polenta con il latte. Ciò avveniva, in particolare, in alcune zone della Lombardia.

Il granoturco ai tempi dei nostri bisnonni

A quei tempi possedere anche solo un piccolo campo dove coltivare il granoturco era la sicurezza di poter garantire la colazione ed il pranzo alla propria famiglia. Con il granoturco, infatti, si cucinava la polenta, che era alla base dell’alimentazione contadina e veniva consumata sia al mattino che a mezzogiorno.

La pianta di mais raggiungere i due metri di altezza, produce un fusto (il culmo) rivestito da lunghe foglie (le brattee), sul quale cresce la pannocchia.

In primavera, dopo aver arato e concimato il campo, si seminava il granoturco. Nel campo, piano piano, la pianta cresceva sotto l’occhio vigile del contadino che si preoccupava di zappare e pulire il terreno dalle erbe, che potevano soffocarne la crescita.

In autunno si raccoglievano le pannocchie. Dopo la raccolta le pannocchie venivano sfogliate dalle brattee che le avvolgevano (in dialetto: spàrascià), e legate insieme a formare dei mazzi (in dialetto: bàgee o bàlgee de toorc) che venivano poi esposti sulle terrazze dei solai e delle case ad asciugare e seccare in attesa della sgranatura. Dopo la sgranatura, fatta a mano, i chicchi di granoturco venivano portati al mulino a macinare per ottenere la farina.

Le fasi di sfogliatura e sgranatura erano veri e propri eventi: avvenivano nei cortili o nelle stalle, con il tepore degli animali, e diventavano un momento di aggregazione per grandi e piccini. Infatti, si riunivano intere famiglie e mentre si lavorava gli adulti intrattenevano i bambini raccontando aneddoti e vecchie storie.

Tutte le parti del granoturco venivano utilizzate: le brattee esterne (in dialetto: i parasch o parascia) più ruvide venivano usate come lettiere per gli animali nelle stalle (in dialetto: el fàlecc); quelle interne bianche e più soffici servivano da imbottitura per i materassi su cui dormire (in dialetto: la besàca). La parte interna e legnosa della pannocchia, i tutoli (in dialetto: i cùcuun), venivano accuratamente messi da parte per l’inverno. Erano infatti utilizzati insieme alla legna da ardere nelle stufe o nei camini per riscaldare le case.

  • BIBLIOGRAFIA:
  • B. Besta, Le classi agricole della provincia di Sondrio, Roma, Forzani, 1883.
  • “Quaderni Grigionitaliani”, a. 20, n. 2 (gen 1951), p. 128-129.
  • De Candolle Alphonse, L’origine delle piante coltivate, Dumolard, Milano, 1883.
  • Alberto De Bernardi, Il mal della rosa – Denutrizione e pellagra nelle campagne italiane tra ‘800 e ‘900. Franco Angeli Editore, 1984
  • Messedaglia Luigi, Il mais e la vita rurale italiana, Federazione Italiana del Consorzi Agrari, Piacenza, 1927.