La Signoria di Traona non ebbe una successione cronologica, ma fu condivisa contemporaneamente da vari casati.

Mentre dominavano i Vicedomini, per successione in linea femminile o per mutati favori politici, subentrarono altre parentele. Così ai Vicedomini si associarono i Paravicini, i Lavizzari, i Pusterla e i Malacrida.

In generale queste famiglie patrizie ebbero analoga origine: passarono dal Comasco alla Valtellina perché esiliate o bandite al tempo della guerra decennale Como-Milano (1117-1127) e della lotta tra Guelfi e Ghibellini, secondo l’alterno prevalere delle opposte fazioni.

I Vicedomini, la famiglia signoreggiò a Traona con la sua potenza e la sua ricchezza per secoli.

Si diffuse in tanti paesi e poi scomparve come una pianta dal tronco robusto e dai rami fronzuti ed ombrosi che, poi, rinsecchisce e muore.

All’origine, il Vicedomino era il fattore, colui che fa le veci del padrone (Dominus); considerata la funzione di rappresentante del padrone lontano, venne il cognome Visdomini-Vicedomini (come a Milano i Visconti: Vice-Conti). Il titolo pertanto fu il nome generico di chi amministrava i beni o del Vescovo di Como o del Comune di Como o dell’Imperatore o del Duca di Milano. Prima era carica temporanea, poi divenne vitalizia e quindi ereditaria.

Il Viscontado della Valtellina, dopo il 1000, era diviso tra Milano e Como secondo gli atti di donazione di Enrico I nell’anno 1006. Nella guerra decennale (1118-1127) tra Como e Milano, la Valtellina fu campo di battaglia, preda di guerra nelle alterne vicende della lotta.

Obiettivo e riferimento dei vari eserciti era il castello di Demofole o della Regina, eretto già dai Goti o Longobardi, in posizione strategica sopra Traona, con potente torrione centrale, con rivellini, barbacani, fossato, torrette di vedetta. Nel sistema difensivo era importante anche il non lontano castello di Monforte che sorgeva alla Valena a oriente dell’attuale chiesa di San Giovanni, castello che fu inghiottito dal movimento franoso del Vallone. Un altro castello di Moncucco a Susingono e varie torrette completavano le fortificazioni della sponda traonasca, in riscontro, al di là dell’Adda, ai castelli di Cosio, Vallate e Rogolo.

In questo ambiente di guerre, sopraffazioni e violenze si distinsero i Vicedomini, provenienti dal Comasco e, forse più verosimilmente, dall’Isola Comacina. Nelle trame fosche di quei tempi si inserì un episodio gentile: nel castello della Regina signoreggiava Giordano Vicedomini, e la sposa Galizia si era recata all’isola Comacina per un breve soggiorno presso i parenti, ma presa della nostalgia della famiglia, volle tornare a Traona, sfidando le insidie dei nemici e le avversità della natura.

La barca giunge al porto di Traona: Galizia risale la montagna sino al castello ma i suoi accompagnatori, nel ritorno, incappano in un’imboscata e vengono imprigionati a Bellano. Riescono ad evadere e per la via dei monti tornano al Castello di Traona con infinita gioia della Castellana.

Giordano Vicedomini, l’anno 1126 guidò una compagnia di Valtellini nella lotta contro Milano, ma cadde in un agguato, per tradimento, e morì nella battaglia di Montesordo in Brianza. Come simbolo della supremazia sui colondelli della Squadra di Traona adottò lo stemma dell’aquila col castello.

Questo è il tempo del massimo splendore dei Vicedomini cui viene riconosciuto il diritto di amministrare la giustizia sia civile che penale; a parere di qualche storico, l’Imperatore aveva concesso anche il privilegio di battere moneta (il cognome Zecca?).

Dalla sudditanza al comune di Como, i Vicedomini passarono dalla parte dell’Imperatore Enrico VI che, nel 1192, in contraccambio di certi servigi, concesse in perpetua donazione ai fratelli Alberto, Giacomo, Alberico Vicedomini e ai loro discendenti, il territorio “a flumine Maseni usque ad lacum” che comprendeva, tra le altre, le corti di Travona, Morbenno, Coso, Adelibio, Collego, Dacio, Melle, Circuino, Plusonio, Forzona, con tutti i diritti su terre, pascoli, selve e monti. In compenso all’Imperatore saranno versate annualmente venti libre imperiali e saranno a sua disposizione, in caso di guerra, i castelli con le loro guarnigioni.

Cariche onorifiche rivestirono nel 1200 Arialdo e Giacomo Vicedomini; un Alberico risulta console di Como nel 1205 mentre Azzo era un giudice di pace nel 1219.

Nelle lotte tra Guelfi e Ghibellini, i Vicedomini parteggiarono per i Ghibellini: Bonacorso, podestà di Como, e Pasio Vicedomini, sposo di Imengarda Castelmuro, subirono le vendette dei Vitani e dei Rusconi di Como, di parte Guelfa, che penetrarono in Valtellina ed assediarono e distrussero nel 1292 il castello della Regina.

Questo segnò l’inizio della decadenza della Signoria dei Vicedomini sia in campo militare che giudiziario.

Nel 1300 i Vicedomini rappresentavano una potenza economica tanto che sovvenzionavano con prestiti i Comuni: avevano perso in autorità politica, ma avevano guadagnato in pecunia. Il ricostruito castello non era più un bastione del complesso guerresco, era il centro dell’amministrazione finanziaria: vi facevano capo livelli, tassi, decime.

Il 1347 segnò una data infausta per i Traonesi: i fratelli Corrado, Giovanni e Pagano Vicedomini non ottenendo la restituzione di un prestito fatto alla Comunità, pretesero ed ottennero i diritti che Traona godeva “su terreni, alpeggi e monti in Valle del Masino”. Nella contesa, delegato di Traona era Bonallo degli Assandri di Pianezzo.

Nel 1373 a sedare i tumulti fra le opposte fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini, intervenne una tregua favorita da Galeazzo Visconti: alla firma della pace eran presenti Rainoldo, Giovanni, Cavalca, Franzotto e Simone Vicedomini di Traona e Zanolo, Corrado, Guarnerio del castello di Demofole.

La vigorosa pianta dei Vicedomini adombrava la squadra di Traona: lo stemma oro-azzurro con il castello biturrito e con l’aquila bicipite, ornava sinistramente i portali del castello di Demofole e dei palazzi di Somagna e di Coffedo.

Le ricchezze si accumulavano vistosamente e non sempre lecitamente; le comunità e le singole famiglie venivano spremute con ogni sopraffazione e chi tentava di reagire alle palesi iniquità, finiva col far la conoscenza degli orrori delle celle profonde dei palazzi e del castello, il cui nome “Demofole” era dalla gente conosciuto come “Domafolle”.

La gente, asservita per vincoli di affittanze, livelli, enfiteusi, decime o per impegni di prestiti in denaro, la cui esosità sfiorava l’usura, protestava con rabbia silenziosa; del resto, le frazioni o colondelli erano divisi da rivalità che fornivano ai Signori l’occasione per rinsaldare la loro egemonia.

I Vicedomini erano Ghibellini per partito, ma seppero barcamenarsi diplomaticamente in modo che conservarono i loro privilegi e diritti anche col mutare dei tempi; in pochi casi si misero in urto con i potenti.

I Visconti, gli Sforza poi, confermarono le donazioni e le prerogative antiche, che consistevano nella centena sui tronchi fluitati nell’Adda (la località Ca’ di Borr ha questa origine); la centena sui capi di bestiame, il legnatico, i diritti di alpeggio e di pascolo, le riserve delle peschiere e le riserve di caccia.

Nell’altalena della potenza e del decadimento della Signoria dei Vicedomini, variarono anche le dimore: non ultima di queste a Coffedo, che deriva il nome da Caput Feudi= Capo del Feudo.

Alle prepotenze dei Vicedomini, alle frequenti guerre, alle lotte fratricide, alle epidemie che decimavano periodicamente i nostri paesi, si aggiunsero anche flagelli naturali quasi incredibili.

La colpa delle inondazioni era ascritta alle passonate delle peschiere della Valletta, a valle del Ponte di Ganda e della Vedescia verso Rogolo. Quelle passonate che, imbrigliando il fiume, consentivano di catturare il pesce, provocando danni enormi alla campagna coll’irrompere della furia delle acque in occasioni di temporali.

I coltivatori dei campi esposero le loro giuste lamentele ai Signori delle Tre Leghe, che ordinarono ai Vicedomini, proprietari delle peschiere, “che le peschiere fossero aperte nel mezzo per quindici brazza, entro otto giorni: altrimenti le avrebbero aperte loro a spese però dei Vicedomini”.

Ma i Vicedomini non erano adusi ad obbedire: il Consiglio di Valle inviò 100 guastatori ad estirpare le passonate e ne venne una piccola guerra. Benedetto Vicedomini con Tognino Zuchino, Gabriello e Antonio dei Gatti opposero resistenza “tirando d’archibusi e schioppetti: ma gli altri passata l’Adda, furono dietro a quelli, che gli scaricavano l’artiglieria ed entrarono in Traona, presero tre dei sopradetti et li fecero dar sicurtà de 3000 ducati del Reno: finalmente la peschiera fu disfatta alli 25 gennaio con grandissima spesa delli sopraddetti delle peschiere”.

Simone Vicedomini di Coffedo, nel 1554, fu condannato per aver incendiato le case dei Paravicini alla Manescia: i figli Vincenzo e Benedetto per salvare il padre da una gravissima condanna dovettero alienare alcuni beni che avevano in Valmasino. L’aquila dei Vicedomini aveva cominciato a perdere le penne; il suo volo dapprima alto e solenne, andava planando: da dominatrice delle vette si era fatta volatile da pollaio.

Qui si inserisce il fosco episodio della torre del Castello: Giovannina Vicedomini, orfana di padre, è affidata allo zio Andrea che la tiene imprigionata nella torre in condizioni pietose. La madre Pietra de Ripa si rivolge al Duca di Milano che scrive al maldestro Andrea, invitandolo perentoriamente a concedere a Zohanina di sposare il figlio di Raffaele Malacrida.

I nostri Vicedomini si alienarono i favori dei potenti Sforza che allora riposero la loro fiducia in Emanuele Malacrida: tramontava la stella dei Vicedomini, si affacciava sulla scena della sponda dei Ceck la famiglia Malacrida.

I Vicedomini si avviano al tramonto: le ricchezze, frazionate in tante famiglie, pur con il regime del maggiorasco, si sono ridotte; le disavventure in cui sono incappati imprudentemente sono costate perdite di denaro in multe e penalità. Le famiglie Vicedomini si sono moltiplicate (nel 1444 erano già 17) e hanno preso vie diverse: a Mello, a Morbegno, a Dazio, a Varenna, a Sondrio, a Villa di Tirano; l’ultimo del ramo di Sondrio, Giuseppe Antonio, muore nel 1775. Il ramo di Traona si estingue nel 1797 con Andrea “mentecatto”.

Le sostanze erano finite in mano dei Malacrida, dei Paravicini (Chiara Vicedomini di Coffedo vende nel 1633 le peschiere ai Paravicini di Ardenno), dei Vertemate di Piuro (nel 1552 Francesco Vicedomini cede la sua parte al Vertemate).

Così lo stemma, già dominante arcigno sui palagi antichi, ora occhieggia mite sulla volta d’una cappella della chiesa di S. Alessandro, mentre nelle tombe delle vetuste chiese riposano i resti degli antichi Signori di Traona, alcuni alteri e violenti, altri umili e caritatevoli come il santo curato don Vincenzo Vicedomini.

Sul colle, tra i ruderi del Castello della Regina, domina, smozzicata, la Torre, testimone silente delle vicende di gloria e di decadenza di una stirpe insigne.

I Malacrida, la loro fortuna ebbe inizio coi Visconti di Milano sotto le cui insegne combatterono valorosamente.

Ottenerono ricchi feudi e cariche prestigiose, come il governatorato a Como e possessi a Musso e a Dongo.

Giovanni e Bartolomeo Malacrida si distinsero nella battaglia di Delebio (1432) in cui i Milanesi sconfissero le Compagnie di Ventura al soldo della Repubblica Veneta. In segno di gratitudine per i servigi prestati, il Duca Filippo Maria Visconti investì Emanuele Malacrida della “podestaria de Trahona et locorum circumstantium usque ad suum beneplacitum” (podesteria di Traona e dei luoghi circostanti a suo piacere).

Anche Francesco Sforza conferma Emanuele e al nipote Raffaele il feudo di Traona, comprendente la Squadra di Traona con ogni giurisdizione civile, penale e militare in modo che la Squadra di Traona rimanga separata dalle altre comunità della Valtellina: una specie di repubblica autonoma.

Così i Malacrida godettero di grande prestigio e accumularono grandi ricchezze e acquistarono una vasta proprietà terriera, abitavano nel centro di Traona nel Palazzo che divenne proprietà dei Vertemate di Piuro e possedevano un’altra casa alla Manescia. Nello stemma si ammirava un leone rampante con sciabola, un castello rosso in campo oro: lo scudo ornava i portaIi del Palazzo.

Come gli altri feudatari non godevano del favore del popolo: riscuotevano le tasse, le decime, i vari balzelli. I documenti dell’epoca recitano i soliti aggravi: stare di mistura, libre di fromagio e di butiro, quartare di castagne secche ecca. La gente protestava sottovoce e si rivaleva schernendo il signore Emanuele Malacrida chiamandolo “Messer Manuello Malacria”.

Sfasciato il Ducato Milanese, scomparsi i potenti protettori, anche i Malacrida decaddero dall’antica Signoria, almeno a Traona, perché trasmigrarono a Sondrio e a Morbegno recando i frutti di decenni di dominazione. A Traona li troviamo ancora come notai e magistrati.

Quando nel 1512 i Grigioni si impadronirono della Valtellina, i Malacrida si affiancarono ai nuovi padroni e per ingraziarseli maggiormente, abbracciarono anche le nuove idee religiose importate. Li troviamo sia a Caspano che a Traona, come aderenti all’eresia calvinista e luterana.

Nei decenni tra il 1500 e il 1600 rialzarono il capo e imposero arrogantemente, collaborando con le Eccelse Tre Leghe, la loro supremazia sia a Sondrio che nel Terziere Inferiore, attirandosi l’odiosità di coloro che non condividevano la loro religione.

Nel 1620, quando la Valtellina insorse contro gli invasori Grigioni, tra le vittime di quell’avvenimento che in seguito venne chiamato “Sacro Macello” troviamo anche membri della famiglia Malacrida. Narra la cronaca che Giosuè e Plinio Malacrida furono uccisi mentre da Caspano tentavano di raggiungere Buglio: a Desco si era concentrato un buon numero di insorti, al comando del capitano Antonio Maria Paravicino. Pompeo Malacrida subì la confisca di tutti i beni, mentre Giuseppe Malacrida, non avendo ottemperato alla “grida” di andarsene dalla Valtellina entro quattro giorni, sorpreso venne barbaramente ucciso.

Non tutti però erano passati al protestantesimo, se fra’ Girolamo Malacrida reggeva come priore il convento dei Domenicani di S. Antonio a Morbegno; anche nelle religiose Agostiniane veneriamo una Beata Elena Malacrida.

Disseminati in tutta la Valtellina, mantennero rapporti con Traona, essendosi imparentati coi Paravicini e coi Vertemate di Piuro. Il ramo di Traona si estinse con Tiberio Malacrida nel 1773.

I Paravicini, un’antica leggenda fa ascendere le loro origini a Carlo Magno.

Affrontiamo subito la questione del nome: Parravicini o Paravicini? L’anagrafe e l’araldica accettano tutte e due le versioni: lo storico G. R. Orsini, imparentato con i nobili di cui parliamo, assicura che il nome esatto non può essere che Parravicini (due erre).

Riferendoci al “Memoriale fatto l’anno 1697 da me Bernardo Paravicino” di cui lodiamo l’estrema precisione con cui analizza gli eventi della sua famiglia, troviamo sempre “Paravicini” nella nostra scorribanda alla ricerca di fatti che possono interessare la nostra Traona, quindi qui useremo”Paravicini”.

È caratteristico distintivo della casata Paravicini il cigno d’argento in campo rosso. Gli antichi intravedevano nel candore del cigno la virtù della lealtà, nel rosso l’audacia e la nobiltà della fiamma che tende sempre verso l’alto. Il cigno migratore prese il posto di S. Alessandro diventando così l’emblema della comunità di Traona.

Un’antica leggenda fa ascendere le loro origini a Carlo Magno, che amava circondarsi di 12 pari o paladini, pari in dignità ed onore. Uno dei 12 paladini si distinse nella spedizione che Carlo Magno fece (774) contro i Longobardi. L’imperatore riconoscente affidò al suo fedele cavaliere il Feudo di Como: la famiglia si stabilì ad Incino, amministrando vaste proprietà.

Da Incino, dopo la distruzione di Como (1127) e le sanguinose lotte tra Guelfi e Ghibellini, i Paravicini si rifugiarono sulla sponda solatia della Bassa Valtellina, con la quale già intrattenevano rapporti d’affari, in quanto era stata data in donazione, da Carlo Magno, al monastero di San Dionigi in Parigi. La dipendenza dal Convento di San Dionigi di tante terre lombarde si avverte fino alla metà del 1300.

I nostri Paravicini si sono smarriti in questo groviglio di date e di fiabe: per ancorarci un po’ di più alla realtà dei documenti torniamo alle notizie fornite da Bernardo Paravicini nel SUO Memoriale del 1697, dove trascrive l’albero genealogico dei suoi antenati: Stracca, Domenico, Montanaro, Alberto, Tomasio, Giacomo, Paolo, Martino, Francesco, Gasparo, Giovan Antonio, Fabrizio, Fabrizio, Bernardo, Giovan Maria, Bernardo.

Era risalito ben sedici generazioni alla ricerca delle radici del suo casato ma ci tramanda soltanto un arido catalogo di nomi. Del capostipite Stracca o Strazia sappiamo soltanto che era un militare; di Domenico invece le notizie sono più abbondanti.

Verso il 1250, Domenico, profugo da Incino di Brianza, si rifugiò a Caspano e, in omaggio alla montagna, al figlio diede il nome di Montanaro. Questo ebbe a sua volta due figli, Belono e Alberto.

Il primo diede origine ai Paravicini Cappello di Caspano-Bedoglio-Sondrio-Morbegno; Alberto invece fu il capostipite dei rami dei Paravicini di Traona-Ardenno-Buglio-Dazio-Civo-Mello-Mantello.

Ebbe inizio così la vicenda di questa casata che coi Vicedomini e i Malacrida ebbe tanta parte nella «Universitas O Comunitas Demopholis” o Squadra di Traona.

Seguiamo nella cronistoria i nostri Paravicini di Traona, anche se, per una strana mania, ricorrente nelle antiche carte, preferivano dirsi “di Caspano, abitante a Traona”. Forse perché Caspano era detta “semenzaio della nobiltà Valtellina” o perché, anche se il soggiorno caspanese si limitava ai soli tre mesi del solleone e dell’aria insalubre del piano, i giovani Paravicini svernavano a Como e Milano per i loro studi, in modo che la brevità della residenza traonese non era sufficiente ad affezionarli alla nostra piccola patria.

Dopo questa annotazione campanilistica, seguiamo le tracce dei Paravicini nei secoli: Alberto si era stabilito in Somagna: nell’anno 1347 risulta comproprietario degli alpeggi di Dusenico-Sambusolo-Cermendone.

Lasciando l’agricoltura e la pastorizia ai villici, controllati dai canepari (amministratori) e dai campari e saltari (guardie dei campi e dei boschi), i nobili preferivano dedicarsi ad opere meno pacifiche, partecipando alle varie guerre che periodicamente insanguinavano le terre lombarde.

Nell’atto di Pace giurato tra Guelfi e Ghibellini di Galeazzo Visconti (1373) compaiono i Paravicini assieme ai Vicedomini e ai Pusterla di Somagna, i Brocconi di Cercino e i Sanfedele di Dubino.

Nel 1400 la Valtellina divenne teatro di guerre con invasioni e scorrerie di vari eserciti. Fu devastata alternativamente dai ducali di Milano e dai Veneziani: questi ultimi furono sconfitti nella battaglia di Delebio nei giorni 26-27 novembre 1432. I Paravicini contribuirono al successo delle truppe milanesi partecipando al combattimento alla testa dei Valtellini inviperiti per i saccheggi dei Veneziani.

Nel 1500 i Paravicini raggiunsero il vertice della loro potenza, imparentandosi coi Vertemate di Piuro, coi Malacrida, con gli Omodei e con i Pusterla. Le famiglie si erano moltiplicate e divise in vari rami con diverse denominazioni: Cappello-Facioni, Gatti, Della Donna, De Lunghi da Bedoglio, Peregrini, Lozza, Sassello, Gianoli, Matteroli..

Per proteggersi da assalti e scorrerie che potevano provenire dalla Val Bregaglia, attraverso la Valmasino, i Paravicini coi loro massari costruirono tre “motte fortificate” a Caspano, Cà del Picco, Cà del Sasso e rafforzarono le torri del Pentì e di Moncucco, mantenendo sempre il castello di Demofole come baluardo del sistema difensivo.

Erano alleati degli Sforza di Milano, parteggiarono poi per Ludovico il Moro. Badino Paravicini con uno stratagemma conquistò Chiavenna, consentendo il rientro del Moro nel Ducato di Milano. L’astuzia di Badino richiamò la trovata del mitico Ulisse sotto le mura di Troia. I Paravicini se ne avvantaggiarono in concessioni.

Mentre i nobili Paravicini dividevano il loro tempo tra Caspano e Traona godendo i pingui redditi delle loro vaste proprietà e la plebe viveva stentatamente, scoppiò un uragano che travolse ricchi e poveri: l’invasione dei Grigioni. Questi, su licenza, sembra, del duca di Milano Massimiliano Sforza, occuparono nell’anno 1512 l’intera Valtellina. Questa dominazione durerà fino al 1797, quasi trecento anni di servaggio straniero.

Per prima cosa, i Magnifici Signori Reti (così volevano essere chiamati) fecero abbattere castelli e torri, poi imposero un tributo di ben 10.000 fiorini del Reno con la motivazione che avevano risparmiato la Valtellina dal saccheggio, un perverso privilegio che le truppe si arrogavano.

I Paravicini, noti per il loro attaccamento al Ducato di Milano ed ai Francesi, vennero colpiti maggiormente dai nuovi padroni. Tomaso Paravicini-Cappello venne multato di 1500 fiorini, la Squadra di Traona dovette contribuire con 1500 brente di vino.

Nel 1515, esasperati per le angherie dei Grigioni e anche per l’inclemenza della stagione, gli abitanti di Traona e della “Costéra” insorsero, rifiutando il pagamento delle tasse. I Paravicini si misero alla testa degli insorti e al grido: Francia! Francia! abbatterono le insegne degli oppressori, gli stemmi con la “cavra” (capra) e coniarono il detto “Dio ne vardi da la saetta e dal trun e da la lege dei Grisun” (Dio ci guardi dal fulmine e dal tuono e dalla legge dei Grigioni).

Le Eccelse Tre Leghe (la Lega Grigia, la Caddea, e le Dieci Dritture) punirono con multe i popolani e con carcerazione ed esili i nobili. Parecchi Paravicini, per sottrarsi alle vessazioni se ne andarono, Crociati contro i Turchi, militari in Polonia, magistrati in varie parti d’Italia. Molti abbracciarono la carriera ecclesiastica e troviamo curati, arcipreti, frati; anche alla prevostura di Traona esercitarono il loro ministero molti Paravicini.

Parecchie famiglie, invece, per ingraziarsi i nuovi padroni, che erano di religione calvinista e luterana, passarono al Protestantesimo: ben 15 famiglie Paravicini sono elencate dal vescovo Niguarda come eretiche (1589), risultavano però residenti a Caspano.

Per accontentare queste famiglie, gli Eccelsi Signori Reti imposero ai cattolici di Traona di dividere coi protestanti la chiesa dedicata alla Santissima Trinità che sorgeva al centro del paese; di qui, come è noto, la risposta dei cattolici che ingrandirono la chiesetta dedicata a S. Alessandro (1606).

I Paravicini, dopo un periodo di decadenza, ripresero vigore acquistando nuove proprietà e rivestendo cariche importanti. Giovan Antonio Paravicini che nel 1612 era il rappresentante di tutta la Squadra o come Gian Maria Paravicini che nel 1620 guiderà col Robustelli e col Guicciardi i Valtellini alla riscossa contro i Grigioni, ma dall’altra parte troviamo ben 93 Riformati che scampati dall’eccidio, si rifugiarono in Svizzera.

Nel decennio 1630-40 Nicolò Paravicini fu proclamato “Cancelliere di Valle”, definito come “faro di bontà e sapienza politica e di infinita devozione alla patria infelicissima”; seppe fare da mediatore tra i potenti Grigioni e i Valtellini che avevano osato levare il capo contro gli oppressori. Il cancelliere Paravicini mitigò le ire d’una parte e incoraggiò alla prudenza l’altra parte.

Un fratello di Nicolò, don Gian Maria Paravicini fu arciprete di Sondrio e poi Vescovo di S. Severina in Calabria. Notevole una sua annotazione sui tragici avvenimenti che erano sfociati nel ‘”Sacro Macello”: “Convertita in furore la pazienza dei cattolici Valtellini, a cui la tirannia degli eretici Grigioni, che in materia di religione e di governo civile si era fatta insopportabile, vi si sollevò contro con le armi tutta la Valle e molti di loro furono scacciati o levati di vita”.

Come già nei Vicedomini e nei Malacrida notammo un miscuglio di religiosità e di eresia, anche nella famiglia Paravicini, suddivisa in moltissimi rami, cogliamo la santità di alcuni e la perversità di altri. Tra i “Santi” non possiamo dimenticare i fratelli Paravicini Costante Giuseppe della famiglia Paravicini-Peter, padri nel convento di S. Francesco: della loro vita di santità e di penitenza hanno scritto vari storici.

Degno di ricordo anche don Battista Paravicini dimorante a Moncucco, che lasciò, a detta dell’Orsini, nel 1635, una ricca biblioteca e una bella raccolta di quadri.

Anche nell’arte la famiglia Paravicini si rese famosa per l’insigne pittore Giacomo Paravicini, detto il Gianolo: la sua celebrità è legata a quadri che sono tutt’ora ammirati a Milano, Crema, Venezia, Casale, Caspano, Chiuro. Traona nella sua chiesa di S. Alessandro vanta le opere più prestigiose del Gianolo: le tre grandi tele del Martirio di S. Alessandro e le 18 Virtù che adornano le pareti. La chiesa risplende tuttora del frutto del genio di questo artista che era nato a Caspano nel 1660 e morì nel 1729.

Un traonese insigne che portò lustro al suo magnifico borgo fu certamente Bernardo Paravicini, figlio di Giovan Maria. Fu dapprima capitano delle milizie urbane della Valtellina, al soldo delle Tre Leghe; acquistò rinomanza per il suo valore, sicché gli fu facile arruolarsi sotto le bandiere dell’esercito polacco che stava organizzando la difesa contro gli invasori turchi.

Lo troviamo con Giovanni Sobieski sotto le mura di Vienna, quando la Lega formata da papa Innocenzo XI (Odescalchi di Como) e da Leopoldo I mise in fuga, sconfiggendola definitivamente, l’armata ottomana forte di ben 300.000 soldati. All’ombra della grande bandiera polacca, con l’aquila bianca in campo nero, non sfigurò la bandiera della Compagnia del Paravicini, cigno bianco in campo nero.

Giovanni Sobieski, sposato con la regina Maria Casimira, divenne re di Polonia: regnò fino alla morte avvenuta nel 1696. Alla morte del Re la Regina, avversata dalla nobiltà, dovette allontanarsi dalla Polonia. Il fedele Bernardo Paravicini la seguì nell’esilio a Roma: da guerriero valoroso divenne gentiluomo di corte.

Uno dei Paravicini che accostò drammaticamente la stola di ministro di Dio alla coccarda dei rivoluzionari fu don Andrea Paravicini, già arciprete di Berbenno, che in uno scontro tra i fautori delle innovazioni della Rivoluzione Francese (Repubblica Cisalpina) e i nostalgici del sepolto dominio Grigione, fu pugnalato da un facinoroso di Rogolo. Bizzarro ed intollerante in vita, brillò di pietà cristiana in morte perdonando e beneficando il suo assassino. La salma martoriata venne sepolta nella chiesa del Convento.

I rapporti Paravicini-Parrocchia non furono sempre cordiali: la famiglia nobile si era voluta riservare l’onore e l’onere di fornire gratuitamente il vino per la messa e l’olio per la lampada fin dal 1600. Alla morte dell’ultimo generoso benefattore gli eredi ricusarono di seguire le orme paterne.

I Sindici della chiesa si richiamarono all’usanza ormai consolidata da anni e citarono davanti al podestà gli inadempienti. Il podestà condannò i Paravicini a ripristinare l’usanza, ma si venne a un compromesso: la famiglia Paravicini riscattò l’obbligo col dono di un lampadario di rame argentato da collocare nel presbiterio della chiesa.

Un altro episodio, più vicino a noi, intorpidì i rapporti: le famiglie nobili vantavano un diritto secolare di occupare nella chiesa certi banchi, ornati dei loro stemmi gentilizi ed intentarono una causa contro l’arciprete, don Tam, che aveva contestato simili pretese. Il pretore di Morbegno diede ragione ai Fabbricieri che si erano presentati in difesa dell’arciprete: i Paravicini si appellarono, ma i banchi rimasero a disposizione di tutti.

Si ricordano anche le benemerenze: come dimenticare il nome di Pietro Paolo Paravicini (1874) che legò il suo patrimonio all’Ospedale di Morbegno per il “ricovero dei vecchi cronici e per le doti alle nubende di Morbegno e di Traona”; una via a Morbegno ricorda questo benefattore.

Ricordiamo anche Antonio Paravicini che aiutò la parrocchia, dopo il rovinoso incendio della sacristia (1882), a ricostruire i paramenti andati distrutti e don Nicola Paravicini-De Lunghi prevosto di Cino negli ultimi anni del 1800, che fu l’ultimo prete della famiglia Paravicini.

  • BIBLIOGRAFIA
  • Songini, don Domenico, “Storia e… storie di Traona – terra buona”, vol. I, Bettini Sondrio, 2001