Il Convento vecchio “alla Poncia o alli Filaggi”

La domenica 25 agosto 1624, sotto il pontificato di papa Urbano VIII, essendo vescovo di Como il card. Desiderio Scalia di Cremona, il parroco Don Vincenzo Vicedomini, con tutta la comunità di Traona, si recò processionalmente alla località’ “alli Filaggi overo a la Pongia” a piantare la Croce e porre la prima pietra del Convento destinato ai frati riformati di S. Francesco della più Stretta Osservanza.

La Pongia o Poncia deriva il nome dal fenomeno naturale procurato da materiale alluvionale, trasportato da un torrente di montagna. Questo toponimo è ricorrente ai piedi di coni deiezionali, si nota ai piedi della Vallina, (vezzeggiativo della valle detta di S. Antonio) che nella storia ha provocato, non sembrerebbe, più disastri del più famigerato Vallone.

Infatti, nel 1710 ha causato la distruzione di varie case con molte vittime ed ha sotterrato il “Convento Vecchio” inducendo i Frati a costruirsi un nuovo Convento. Inaugurato nel 1738, esiste tuttora, di fianco alla chiesa di S. Francesco.

La “Poncia” ci ha ricordato disastri, distruzioni, morti, mentre i “filaggi” aprono la trama d’un racconto che potrebbe sembrare fantastorico, se non fosse sostenuto da una documentazione valida.

“Filagoi” potrebbe essere una versione dialettale di “filanda o filatoio”. Che c’entra un convento con il filo? Si tratta della storia degli Umiliati, religiosi che diffusero l’arte della filatura e che avevano un loro “munistero” proprio alla Poncia di Traona.

Gli Umiliati

Gli Umiliati erano membri d’una comunità religiosa che si richiamava ad un ascetismo rigoroso proprio della Chiesa primitiva: questo movimento di perfetta vita cristiana ebbe origine a Milano e se ne attribuì la fondazione al beato Giovanni Oldradi da Meda.

Una leggenda ci aiuta a capire l’origine di questo vasto fenomeno religioso che abbraccia i primi sei secoli del secondo millennio. L’imperatore di Germania, Enrico II nel 1004, era sceso in Italia, col suo esercito, sconfiggendo Arduino d’Ivrea e punendo le città di Milano e Como che avevano tentato di sottrarsi al suo dominio, traducendo oltralpe, in catene, i maggiorenti delle città lombarde.

I prigionieri subirono gli stenti della prigionia, sinché, desiderosi di tornare liberi in patria, si fecero ricevere dall’imperatore e, prostratisi in lacrime, dichiararono il loro pentimento, e, giurando fedeltà all’impero, chiesero la grazia della liberazione. L’imperatore soddisfatto esclamò: “Eccovi dunque finalmente Umiliati”.

Ritornati in Lombardia, diedero vita ad una compagnia o confraternita che, col nome “Umiliati”, si dedicasse ad una vita di penitenza e di preghiera. Col nuovo nome scelsero, in reazione al lusso degli abiti allora in voga, un abito di color “cinerizio”, una ‘”vesta di panno grosso” cinto con una cintura dello stesso panno, un mantello che scendeva fino ai piedi, un berretto di tela non tinta, caratteristica che li distinse, per il popolo, come i “Berrettini de la penitenza” o “zoccolanti” per gli zoccoli in legno che portavano ai piedi.

Desiderosi di camminare nella via della perfezione, votati alla povertà evangelica, al lavoro, alla penitenza e alla predicazione, costituirono una corporazione di artigiani della lana, che si dedicò alla produzione ed alla mercatura di stoffe di poco pregio raggiungendo un cospicuo arricchimento. Qualche disordine dottrinario ed economico allarmò la Chiesa di Roma, che intervenne, nel concilio di Verona, con un decreto di condanna. Una parte diede vita allo scisma dei Valdesi o poveri di Lione, una parte, invece, gli Umiliati, appunto, o poveri Lombardi, rientrarono nell’ortodossia.

Nel 1163, allorché Federico Barbarossa fece radere al suolo Milano, i religiosi si dispersero e si rifugiarono sui monti; arrivarono così in Valtellina, e si stabilirono in vari paesi, come a Monastero di Dubino, ad Andevenno, a Teglio (S. Orsola), a Ponte, a Tirano (S. Perpetua e S. Remigio) e a Traona, alla Poncia o “alli Filaggi”, cioè alle filande dove si filava la lana.

Qui, a Traona, troviamo gli Umiliati in un documento del 1295 (Rationes decimarum) rinvenuto nel 1976 nell’archivio segreto del Vaticano, da cui risulta che nel Convento di Traona la comunità degli Umiliati, diretta da frate Domenico e da frate Attone da Vico, doveva esborsare in due rate una somma di 11 soldi imperiali e 3 denari come contributo alla Crociata in Terra Santa.

A Traona gli Umiliati introdussero la lavorazione della lana e della canapa ed impiantarono una loro manifattura, i “Filaggi” appunto. Sui loro bravi telai impostavano l’ordito con i fili grossi di canapa, completato con la trama di fili orizzontali, con la spoletta confezionavano la tela alta un braccio e di alcune decine di braccia di lunghezza. Se la tessitura invece fosse stata effettuata con la lana su ordito di canapa si sarebbe ottenuto il “mezzalana” o “pannilana” che veniva poi tinto di marrone con il mallo di noce: ne venivano ricavate le “struse”, coperte pesanti e gli abiti, i mantelli dei frati.

Gli Umiliati prosperarono a Traona fino al XVI secolo, quando per l’abbondante afflusso di capitali derivato dall’industria tessile e dalla mercatura, decaddero nei principi morali, venne meno la disciplina e la fedeltà agli insegnamenti della Chiesa, incorrendo nei severi provvedimenti dell’autorità ecclesiastica. Con S. Carlo Borromeo, sotto il Pontificato di Pio V, fu sancita l’abolizione dell’Ordine, in data 7 febbraio 1571.

Mentre l’arte tessile venne esportata nei paesi del versante Orobico, specialmente nella valle del Bitto, a Traona rimase solo qualche telaio inutilizzato.

Cinquant’anni dopo, passata la burrasca della Rivoluzione Valtellinese del 1620, sul terreno del Monastero degli Umiliati, o Berrettini de la Penitenza, venne posta la prima pietra d’un altro Convento, quello dei Francescani detti anche Riformati dell’Osservanza o Zoccolanti, in memoria degli antichi religiosi che avevano per oltre 400 anni fatto risuonare la Poncia con le loro salmodie, ritmate dalle cadenze delle “frantoie” della canapa e dei telai “de la tila de cà”.

Il Convento nuovo “alla Galletta”

Il Convento vecchio sorgeva giù in basso: nel 1624 aveva aperto i battenti ai Frati Francescani Osservanti o Zoccolanti, fu abbandonato poi per colpa della “Valéna”, che nel 1710 scaricò una massa di detriti, tale da sommergere, in parte, il Convento e da costringere i Frati a salvarsi su un’altura.

Esattamente nel 1725 si cominciarono i lavori del Convento nuovo che fu inaugurato, con la chiesa di S. Francesco, nel 1738: 40 celle, cucina, refettorio (con una Cena del pittore Alessandro Valdani di Chiasso), infermeria, foresteria; chiesa vasta, con 5 altari, un coro di noce.

Le statue dell’Ecce Homo (opera del frate francescano fra Giovanni da Reggio), della Madonna Immacolata, di S. Francesco (opera del frate francescano fra Francesco Rabagliotti da Vanzone), provenivano dal vecchio convento così pure la campanella del 1641 che fu collocata, assieme a due nuove, sul bellissimo campanile dall’originale rastrematura.

Anche la strada della Via Crucis è di quei tempi: i Frati l’avevano progettata come un arricchimento della chiesa di S. Francesco, allora meta di pellegrinaggi, per l’Indulgenza del Perdon d’Assisi. Alla chiesa si poteva accedere anche dalla strada comunale ma essi pensarono come ad un Calvario cui arrivare seguendo le stazioni della Via Crucis, come il Sacro Monte di Varese, di Varallo, del Soccorso ad Ossuccio sul Lago di Como.

Ma la nostra Via Crucis era più breve e le cappelle meno impegnative, più minuscole per costruzione e per decorazione ma altrettanto interessanti in quanto conducevano alla chiesa di S. Francesco dove sull’Altar Maggiore, interamente scolpito in legno di radica, spiccava un Ecce Homo di fattura mirabile e d’un realismo sconvolgente.

Per realizzare le cappelle della Via Crucis i Frati invitarono due famosi artisti, i fratelli Giovanni e Giuseppe Torricelli di Lugano: il primo, architetto, disegnò le strutture e le ornò con i contorni di granito, il secondo, pittore, le affrescò nell’interno con le scene della Passione. Di queste pitture non rimane nemmeno l’ombra: forse per il materiale inadatto, forse per l’esposizione alle intemperie, l’interno delle cappelle non conserva il minimo ricordo di colori o di figure. È rimasto solo l’affresco nella lunetta del pronao, all’ingresso della chiesa con le Stimmate di S. Francesco.

La strada delle Cappelle, nelle carte antiche, è chiamata “viale”: era fiancheggiata da gelsi, o moroni, che fornivano le preziose foglie per i bachi da seta. Il viale alberato adduceva al piazzale della chiesa ornato da 5 tigli imponenti.

Attualmente l’ex-convento è una dimora privata.

  • BIBLIOGRAFIA:
  • Songini, don Domenico, “Storia e… storie di Traona – terra buona”, vol. I, Bettini Sondrio, 2001